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Il canto di Ofelia


«C’è un salice che cresce di traverso
a un ruscello e specchia le sue foglie
nella vitrea corrente; qui ella venne,
il capo adorno di strane ghirlande
di ranuncoli, ortiche, margherite
e di quei lunghi fiori color porpora
che i licenziosi poeti bucolici
designano con più corrivo nome
ma che le nostre ritrose fanciulle
chiaman “dita di morto”; ella lassù,
mentre si arrampicava per appendere
l’erboree sue ghirlande ai rami penduli,
un ramo, invidioso, s’è spezzato
e gli erbosi trofei ed ella stessa
sono caduti nel piangente fiume.
Le sue vesti, gonfiandosi sull’acqua,
l’han sostenuta per un poco a galla,
nel mentre ch’ella, come una sirena,
cantava spunti d’antiche canzoni,
come incosciente della sua sciagura
o come una creatura d’altro regno
e familiare con quell’elemento.
Ma non per molto, perché le sue vesti
appesantite dall’acqua assorbita,
trascinaron la misera dal letto
del suo canto a una fangosa morte».

(Amleto, Atto IV, scena VII)


Nonostante in molti accusino la pazzia di aver tolto la vita ad Ofelia, ai più attenti non sfugge che i suoi sicari furono l'amore e la morte.
Insospettabili entrambi: l'uno perchè elargisce vita, l'altra perchè ne è del tutto priva.
D'altronde chi oltrepassa queste due colonne d'Ercole è improbabile che sopravviva, magrado lo meriterebbe per non aver voluto scorgervi un limite. Sono pochi i temerari che si arrischiano ad eternare quel che comincia con l'essere terreno e il più delle volte lo rimane.
E dato che l'atto più lucido che uno svitato può compiere consiste nell'allentare, la sua salvezza prevede che smorzi la tensione che lo teneva prigioniero.
Alcuni sono scarcerati da un urlo, il cosiddetto urlo liberatorio, ad altri è consentito soltanto un canto: il canto di Ofelia, appunto.
Quello privo di virtuosismo e di tecnica, di corali di sottofondo, che ti riconsegna la bambina che saltellava in cortile, scarmigliata, scomposta, che se fosse stata in ordine, avrebbe avuto un difetto.
Quel canto può essere solo di un solista, solitario come il suo assolo.
Di tanti che lo ascoltano, pochi lo sentono, perchè chi deplora una musica stonata, difficilmente ammetterà che le parole del suo testo siano sensate.
E intanto Ofelia intreccia ghirlande di fiori, cinge il collo di un ramo con quelle collane, pallida come l'anemia della sua tristezza che assomiglia tanto ad una di quelle colonne d'Ercole, lesta a riscuotere la ricompensa che spetta a chi, dopo tanta veglia, un fiume assegna un letto per ristorarlo finalmente col sonno.

Commenti

  1. L'amore (o la delusione dell'amore?) e la morte.
    È tutto così precario sulla terra. Ciò che davvero conta, non è mai nelle nostre mani. Siamo corpi che vestono anime fragili.

    Quel limite, quelle Colonne d'Ercole, immagino che qualcuno le oltrepassi per dare un senso a ciò che prova: per urlare ch'esso è grande e infinito, purtuttavia in un mondo finito.

    (T)i voglio (B)ene, (A)micheTTa mia.
    (T)i (A)bbraccio forte forte.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Anch'io (T)i voglio (B)ene, (A)micheTTo!
      Lidia è una delle tante Ofelie, annegata da chi avrebbe dovuto salvarla. Il suo sepolcro è umile quanto l'acqua che la inghiotte perchè alla purezza spettano esequie che le assomiglino.
      Quanto alle colonne d'Ercole da me stilizzate, sono una provocazione a cui è difficile resistere.
      Omero deve aver preso un abbaglio nell'avvistare le sirene tra Scilla e Cariddi: più probabilmente stanno tra Eros e Thanatos, al largo degli istinti.
      Dubito che la contezza di essere al riparo di un limite potrebbe mai mettermi a mio agio. Stento a perimetrare emozioni e giorni, a rinchiuderli nel recinto della mia fragilità, a diventare ragioniere di una matematica di affetti per cui i conti devono tornare a tutti i costi.
      Se così, preferirei di gran lunga che, che alla resa dei conti, a non tornare fosse ciò che conta.
      (T)i (A)bbraccio forte, forte!

      Elimina

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